Restando in superficie, di questa regia si dice: i cantanti diventano un quadro dipinto. Ascoltandola sulla musica, invece diciamo: siamo finalmente entrati in una delle opere più enigmatiche di Rossini, Il viaggio a Reims. Una delle ultime, che il compositore chiama intenzionalmente “Cantata”, negandone sornione ogni possibile drammaturgia. Damiano Michieletto non ci crede, e in questa straordinaria regia in scena all’Opera di Roma, intercettata da Amsterdam (dove ha debuttato due anni fa) come un mago squarcia il velo, cioè il sipario, che è la tela bianca di un quadro immaginario, bianco, enorme, tutto da dipingere.

Quella gigantesca pagina incorniciata, dove spuntano una dopo l’altra le facce dei cantanti, buffe negli oblò strappati, diventa un’intensa metafora del genio di Rossini. Che ha scritto una girandola di capolavori, sin da quando aveva dodici anni; rivoluzionari, uno dopo l’altro, ma che quando viene celebrato a Parigi come il sommo, l’autorità senza rivali, si ritrova senza più inchiostro nella penna. Paralizzato. Il viaggio a Reims dovrebbe essere un omaggio celebrativo, per l’incoronazione di Carlo X, nel 1825. Ma nell’essenza autentica è il gesto di addio: ritratto sublime, affettuoso e malinconico a quella che è stata la mirabolante avventura dell’opera italiana.

 

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marco

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