
A proposito del Turco in Italia.
Sono trascorsi poco più di tre anni dalla scomparsa di Alberto Zedda e poco più da quella di Philip Gosset, cioè la “Cassazione” di ogni disputa o dubbio in campo rossiniano: purtroppo i tempi della Renaissance rossiniana sono lontani ma si era più che legittimati a pensare che il rispetto unito al buon senso avrebbero potuto proteggere sine die i capolavori del cigno pesarese da ogni possibile scellerata contaminazione o inaccettabile stravaganza che ne avessero mutato i connotati.
Senza alcuna autoreferenzialità di intenti, tendenza sempre più praticata in tempi pandemici, mi viene spontaneo il ricordo di quando appena tre anni fa ero Don Bartolo nel cast de “Il barbiere di Siviglia”, per l’inaugurazione del Gran Théatre de Genève, con la regia affidata ad un inglese… di Londra, che dopo ben 15 giorni di prove, ci rese partecipi della sua intenzione di eseguire tutta l’opera senza alcun recitativo: alle mie ovvie richieste di spiegazioni, egli rispose che i recitativi erano noiosi ed il pubblico aspetta solo i momenti musicali, per sentire le voci. Che il regista in questione non conoscesse nemmeno una parola di italiano era solo un aggravante per chi, con imperdonabile imprudenza, lo avesse scelto; ma il problema era amplificato dal fatto che nemmeno il direttore, tra l’altro ottimo musicista, fosse in grado di comprendere il significato delle parole del libretto.
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